Elaborato di Clarissa Cancelli
In Italia oggi sono circa 200 mila le persone che convivono con la cirrosi epatica e ogni anno l’8% dei malati perde la vita per questa patologia. L’alcol causa la maggior parte dei casi di cirrosi, ma solo il 10% delle persone con dipendenza da sostanze alcoliche è stato preso in carico dai servizi del Sistema sanitario nazionale. Molti non sanno nemmeno di essere malati e arrivano in ospedale con la complicanza già eclatante.
“Il problema è che la dipendenza da alcol è da sempre presente nel nostro Paese, ma viene spesso nascosta”, spiega Dario Manfellotto, presidente della Fadoi (Federazione delle associazioni dei dirigenti ospedalieri internisti). In questo modo i medici non sono messi al corrente del problema e, di conseguenza, non possono prendere le dovute precauzioni nei confronti dei loro pazienti, che forse nemmeno sanno di essere malati.
“C’è difficoltà da parte dei pazienti ad avvicinarsi alle strutture perché il giudizio moralistico pesa molto sulla malattia – afferma Fabio Attilia, dirigente medico presso il Centro di Riferimento alcologico regione Lazio – l’alcolista viene considerato come quello che se l’è cercata. La stigmate di natura sociale è fortissima, soprattutto rispetto al sesso femminile. Adesso però molte donne hanno superato questo problema e riescono ad avvicinarsi. Nel nostro Centro ancora non abbiamo raggiunto la parità”.
L’abuso di alcol non causa quindi soltanto incidenti stradali, come la maggior parte delle campagne di sensibilizzazione sull’eccesso di sostanze alcoliche insegna, ma anche gravi malattie epatiche.
“Le patologie di natura cronica fanno molta meno audience rispetto a un incidente stradale – continua Attilia – Tutte le morti che ci sono ogni anno per le problematiche legate all’alcol di natura cronica rappresentano un numero tragico, soprattutto in riferimento alla grandissima mole di ricoveri che si fanno in ospedale. Ma all’opinione pubblica questo interessa poco”.
Patologie come la cirrosi epatica e l’encefalopatia epatica (una delle sue peggiori complicanze) sono ancora infatti spesso trascurate e diagnosticate solamente in fase acuta, proprio per una conoscenza ancora troppo limitata.
“Il medico esperto ovviamente con la storia del paziente, gli esami di laboratorio e con la visita è in grado di fare diagnosi tempestivamente e anticipare le complicanze”, spiega ancora Manfellotto. Ma le due patologie non sono ancora ben conosciute dalle persone e, soprattutto, vengono raramente associate ai rischi dell’alcolismo.
“Quello che dispiace molto a chi lavora in questo settore è che quando arrivi ad avere una diagnosi di cirrosi, vuol dire che non si è stati in grado di prevenire la malattia nei molti anni precedenti, quando si era ancora in tempo per intervenire. E quindi si prendono in carico i pazienti quando il caso è già conclamato”, aggiunge Attilia.
Quante persone consumano alcol quotidianamente
L’Istat ha reso disponibili i dati rilevati tramite l’indagine Multiscopo sulle famiglie “Aspetti della vita quotidiana” condotta nel 2019 su un campione di circa 24 mila famiglie. Il risultato dello studio è che nel 2019 il 66,8% della popolazione di 11 anni e più ha consumato almeno una bevanda alcolica nell’anno, percentuale stabile rispetto al 2018 (66,8%, in aumento rispetto al 65,4% del 2017).
La percentuale dei consumatori giornalieri di bevande alcoliche è pari al 20,2%, in diminuzione rispetto a quanto osservato dieci anni prima: 27% nel 2009. In aumento la quota di quanti consumano alcol occasionalmente (dal 41,5% del 2009 al 46,6% del 2019) e quella di coloro che bevono alcolici fuori dai pasti (dal 25,5% del 2009 al 30,6% del 2019).
Per quanto riguarda il 2014, sempre sul sito dell’Istat, si legge che i comportamenti di consumo di alcol che eccedono rispetto alle raccomandazioni per non incorrere in problemi di salute (consumo abituale eccedentario e binge drinking) hanno riguardato 8 milioni e 265 mila persone, il 15,2% della popolazione, dal 15,9% nel 2013.
“I comportamenti che eccedono rispetto alle raccomandazioni – c’è scritto – si osservano più frequentemente tra gli ultrasessantacinquenni (il 38% degli uomini e l’8,1% delle donne), tra i giovani di 18-24 anni (rispettivamente 22% e 8,7%) e tra gli adolescenti di 11-17 anni (21,5% e 17,3%). La popolazione più a rischio per il binge drinking (un’espressione che significa ‘abbuffata di alcolici’ o ‘bere fino a ubriacarsi’) è quella giovanile (18-24 anni): il 14,5% dei giovani (21% dei maschi e 7,6% delle femmine)”.
Quasi un anno fa Pierpaolo Sileri, viceministro della Salute ha dichiarato che è necessario intercettare tutti i consumatori con danni da alcol, promuovendo l’importanza della diagnosi precoce e di campagne di informazione e sensibilizzazione. “Il ministero della Salute ne attiverà presto una anche su Instagram”, aveva detto.
Quella campagna, forse per l’emergenza Coronavirus, non ha mai visto la luce, ma diffondere informazioni e sensibilizzare l’opinione pubblica, soprattutto i giovani, in materia è di importanza vitale.
“È facile spiegare a un ragazzo i rischi legati alla guida in stato di ebbrezza. È un po’ più difficile spiegare a un sedicenne cosa è invece la cirrosi epatica”, spiega il dottor Attilia.
“Vanno istaurati degli atteggiamenti formativi nei confronti dei territori che hanno pazienti con questo tipo di caratteristiche”, ha detto il dottor Giancarlo Parisi, direttore Uoc di Medicina Interna all’ospedale Immacolata Concezione di Piove di Sacco, a Padova. “Ovviamente specialisti come me sanno come va gestita questa patologia. Con il progetto Tiberino abbiamo trasferito anche ai non specialisti del settore, come per esempio gli internisti, tutte le informazioni necessarie per aumentare il livello di attenzione su questa malattia”, aggiunge.
Il progetto Tiberino
Il progetto Tiberino, un’iniziativa ideata da Fadoi, si propone di realizzare corsi in dieci città italiane che “permettano all’internista ospedaliero migliore gestione clinica e un appropriato counseling quando il paziente cirrotico, in particolare con encefalopatia epatica, viene dimesso dall’ospedale”.
“Il progetto è nato l’anno scorso sotto l’egida della Fadoi (di cui io faccio parte) e ha raccolto un team di esperti in ambito epatologico tra cui il sottoscritto – racconta il dottor Parisi -. L’obiettivo è quello di trasferire le informazioni sulla malattia cronica del fegato, quindi cirrosi ed encefalopatia epatica, agli internisti italiani. La premessa è che questo tipo di malattia incide molto nei reparti di Medicina interna (parlo di quando è in stato avanzato, quindi cirrosi con complicanze) ma non trova spesso all’interno della Medicina delle competenze specifiche perché sono a carico degli epatologi”.
Sul sito della Fadoi, si legge che gli obiettivi del percorso formativo sono: aderenza alla terapia, prevenzione delle complicanze più gravi quali encefalopatia e ascite, potenziamento dell’assistenza infermieristica territoriale, formazione di medici e infermieri per perfezionare la comunicazione con pazienti e familiari, miglioramento dell’aspettativa e della qualità di vita del paziente e della sua famiglia.
“Abbiamo cercato di dare informazioni tecniche specifiche a tutti gli internisti. Abbiamo preparato una serie di riunioni/conferenze fatte in diverse regioni italiane in cui presentiamo gli aspetti pratici della malattia con sette/otto relazioni più gli aspetti comportamentali e gestionali dei familiari. Anche perché, soprattutto con l’encefalopatia epatica, il problema è del paziente, ma anche di chi ci vive insieme”.
L’encefalopatia è infatti una sindrome neurologica caratterizzata da alterazioni della coscienza, della personalità e della funzione neuro-muscolare. Quando le sostanze tossiche prodotte dall’intestino, che non vengono metabolizzate ed eliminate dal fegato proprio a causa della ridotta funzione epatica, arrivano all’encefalo, possono determinare un ampio spettro di alterazioni mentali e motorie che possono portare addirittura al coma.
“La forma di encefalopatia minima è pericolosissima. Se si pensa a coloro che hanno un lavoro con molte responsabilità, come un magistrato o un medico o un insegnante, che hanno la cirrosi epatica con un’encefalopatia epatica minima, quindi non evidente, che li induce ad alterazioni importanti del loro stato di guida, di umore o di interpretazione delle cose, allora si capisce quanto sia ampio il pericolo”, racconta Parisi.
“L’encefalopatia in un paziente noto con cirrosi epatica deve essere intanto a carico, almeno nella fase diagnostica e terapeutica, di centri con competenza e bisogna poi istaurare un sistema di controllo familiare, territoriale che sia abbastanza curato per prevenire la recidiva della malattia”, aggiunge.
Il progetto Tiberino purtroppo si è fermato a causa dell’emergenza Covid-19. “Questi mesi di lockdown hanno congelato temporaneamente questa parte del progetto soprattutto per chi lavora in prima linea. Ma siamo pronti a riprendere”, spiega Parisi.
Una spesa ampia per i pazienti cirrotici
Secondo uno studio pubblicato su The Lancet, una delle più prestigiose riviste mediche internazionali, dal nome “The global, regional, and national burden of cirrhosis by cause in 195 countries and territories, 1990–2017: a systematic analysis for the Global Burden of Disease Study 2017”, la cirrosi rappresenta l’ottava causa di morte con una mortalità aumentata del 45% negli ultimi 20 anni.
Negli individui che presentano cirrosi, circa il 30-45% mostra segni di una encefalopatia conclamata.
“Il paziente cirrotico rappresenta una realtà in Italia numericamente molto importante – spiega Dario Manfellotto -. Sono pazienti che devono essere seguiti con molta attenzione perché spesso può capitare che presentino una malattia che evolve e che in molti casi può provocare delle complicanze che portano il paziente al ricovero in ospedale”.
Secondo uno studio del Ceis (Centre for Economic and International Studies) dell’Università di Roma Tor Vergata sulla Cirrosi epatica e complicanze, la spesa media per paziente con encefalopatia epatica varia dagli 11 mila ai 14 mila euro per i costi ospedalieri e si stima un costo complessivo nazionale di oltre 200 milioni all’anno. Una spesa molto ampia. Ma qual è il motivo?
“La spesa è così ampia perché il paziente arriva nei reparti con la complicanza già eclatante, invece di prevenirla. Prevenire significa gestire correttamente il paziente con i farmaci adeguati e con un sistema di caregiver (pazienti, familiari, assistenti sociali che si prendono cura delle persone e che diventano un supporto indispensabile nella gestione di questa malattia) altrettanto adeguato. È una situazione drammatica che si arrivi in ospedale con una patologia importante che costringe al ricovero. Quando si giunge a questo punto ovviamente la complicanza della malattia è già molto avanzata, quindi i tempi di ospedalizzazione e di trattamento diventano più lunghi”, spiega Parisi.
“Questi sono i costi dei ricoveri, delle spese accessorie, dei farmaci, dell’assistenza ospedaliera. Quanto è più grave e critica la condizione del paziente tanto più è necessario usare strumentazioni, analisi e terapie che hanno un costo”, spiega Manfellotto.
La risorsa umana, quindi le cure e il ricovero è fondamentale, ma in questo caso si parla di un problema anche di natura economica. “Se non esistesse l’alcol probabilmente risparmieremmo almeno 1 punto di Pil. I cirrotici sono pazienti che pesano a livello sanitario, ma non solo per i ricoveri. Basti pensare ai giorni di lavoro persi perché il paziente è un alcolista che non si cura. È una persona che non è in grado di dare se stessa alla società. Ecco perché sarebbe fondamentale che ben oltre quel 10% delle persone con dipendenza da alcol fosse preso in carico dai servizi del Sistema sanitario nazionale”, dice invece Attilia.
Ma se ci fosse più sensibilizzazione in merito alle malattie epatiche dovute all’alcol, che è appunto la maggiore causa, ci sarebbero forse meno ricoveri ospedalieri?
“Ci sono molti aspetti da valutare. C’è il paziente che non sa di avere la malattia e dunque va ancora individuato. Una sensibilizzazione sulla cirrosi sarebbe dunque importantissima. Ma individuare coloro che abusano di alcol non è semplice”, afferma il dottor Parisi.
“Ci sono diversi tipi di pazienti – continua il dottore – quello che viene tracciato perché ha già una complicanza della malattia, quello che beve alcolici e va a incappare nelle maglie della legge e che quindi subisce un controllo da parte degli enti sanitari e non sanitari. E poi ci sono quei pazienti che hanno abusato di alcol ma non sono stati tracciati perché magari non finiscono in pronto soccorso e stanno quindi in una sorta di limbo in cui per anni continuano ad abusare di alcol finché non presentano una malattia eclatante che li porta in ospedale”.
“Il problema è che la dipendenza da alcol è da sempre presente nel nostro Paese, ma viene spesso nascosta – dice invece il dottor Manfellotto -. I pazienti tendono non solo a nasconderlo, ma arrivano anche a negarlo. Non lo dicono e il medico magari non ci pensa. Molto spesso si vergognano. Quindi poi la diagnosi viene fatta più tardivamente e allora si arriva alla complicanza che porta al ricovero. C’è quindi questo ritardo che può rappresentare un problema nella presa in carico, che diventa più limitata”.
C’è bisogno quindi di un surplus di attenzione e comunicazione politica al riguardo? Manfellotto non la definirebbe “politica”: “È più una presa di coscienza sociale. L’alcol può rappresentare per molte persone l’inizio di una malattia, quindi bisogna avere la coscienza di farne un uso moderato, limitato, controllato. Altrimenti ci potrebbero essere complicanze serie. Campagne di educazione, di informazione per spiegare che l’alcol deve essere assunto in una certa maniera, entro certi limiti, che sono quelli raccomandati è molto importante”.
“Se il paziente arriva in ospedale è perché magari per la prima volta ha notato i segni tipici dell’ittero (gli occhi e la cute gialla), segnale di uno scompenso cirrogeno. In quel momento la persona ha paura ed è lì che un ruolo importante deve essere giocato all’interno del pronto soccorso: la persona si sente più fragile, chiede aiuto ed è disposta ad aprirsi al medico”, spiega il dottor Attilia.
Il Covid-19
Con l’emergenza Coronavirus i pazienti cirrotici sono andati in ospedale solo se necessario. Ma questo non ha fatto sì che gli aiuti medici si siano fermati. “La sanità italiana – spiega Parisi – non ha mai mollato sull’atteggiamento curativo e terapeutico di tutte le patologie croniche. Sono stati per lo più i pazienti che hanno avuto paura ad andare in ospedale durante l’emergenza Covid-19. Ma non perché ci fosse difficoltà nel gestire i malati. Come sappiamo, ci sono stati degli ospedali che sono stati letteralmente soffocati dall’epidemia, ma questo non ha impedito di curare le persone”.
“In Veneto per consentire a tutti i medici di poter far fronte all’epidemia nei reparti, le attività ambulatoriali erano state sospese, salvo le prestazioni priorità B, ossia quelle che avevano urgenza entro dieci giorni – continua a spiegare -. Quindi i pazienti cirrotici che avevano un atteggiamento di follow-up abbastanza ripetitivo, quindi ogni 3-6 mesi, magari non sono venuti. Salvo, ripeto, quando compariva la complicanza che li induceva ad andare in pronto soccorso”.
“Il Centro di Riferimento alcologico regione Lazio è stato sempre aperto. Abbiamo avuto meno accessibilità ai pazienti, ma il contatto telefonico c’è sempre stato. E soprattutto la gestione delle urgenze è stata sempre garantita. Quando c’era bisogno, i pazienti sono sempre stati ricoverati”, afferma Attilia.
Per visualizzare i grafici: https://infogram.com/untitled-infographic- 1ho16v8pzk5x2nq?live
Clarissa Cancelli
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