Elaborato di Bernardo Cianfrocca
“Sono Saverio. Ho scoperto di avere il virus dell’epatite C nel 1998 e ho iniziato una terapia di interferone per eliminarlo, senza successo. Ho convissuto col virus in modo dignitoso, lavorando e mettendo su famiglia. Andando avanti, mi è stata diagnosticata una cirrosi. Dopo un’altra terapia andata a vuoto, ho aspettato dei nuovi farmaci, messi in commercio da poco. Nonostante la gravità della malattia, non si riuscivano a trovare facilmente. Ho lottato, sono riuscito ad averli e con 12 settimane di cura il virus è scomparso. Dopo sei mesi, i controlli continuavano a essere negativi. Ancora oggi sono tenuto sotto osservazione. Mi auguro che si possano curare tutti quelli che ne hanno bisogno”.
La testimonianza di Saverio, risalente al 2016 sul canale Youtube dell’Epac (portale dei pazienti con malattie epatiche), è un messaggio di speranza da parte di chi ce l’ha fatta, almeno parzialmente. Non tanto a guarire, ma a rendere la sua vita migliore nonostante una presenza scomoda. La cirrosi epatica è una delle patologie degenerative del fegato. Ha diverse possibilità di origine e il virus dell’epatite C, l’HCV, è uno di questi. Se il virus però si può debellare, come ha fatto Saverio, le sue conseguenze restano. E un danno epatico come la cirrosi non scompare, deve continuare a essere monitorato e gestito per sempre, per evitare complicazioni. La sola scomparsa del virus non garantisce in automatico uno stile di vita libero da preoccupazioni. Attualmente, in Italia, ci sono 200mila persone che soffrono di cirrosi epatica (dato emerso in un convegno dello scorso dicembre organizzato da “Motore Sanità”, presso l’Istituto Superiore di Sanità a Roma).
Le patologie e le loro conseguenze – La cirrosi epatica consiste nella progressiva trasformazione del tessuto del fegato in un altro tipo di tessuto, fibroso e non vitale, con relativa distruzione delle sue cellule, gli ematociti. La modifica del tessuto può creare delle insufficienze nelle funzionalità epatiche, con conseguenze potenzialmente dannose per l’intero corpo umano. Per molto tempo può essere una patologia latente, ossia priva di sintomi evidenti, ma sottovalutabili e riconducibili ad altre malattie, come la perdita di peso e appetito, il prurito sparso o la presenza di subittero, una colorazione giallastra oculare. Nel momento in cui si manifesta con episodi gravi, come ricorrenti sanguinamenti esofagei e intestinali, o ascite, l’accumulo di liquidi nell’addome, rischia di essere diagnosticata già in uno stato avanzato.
L’encefalopatia epatica è, invece, una delle possibili conseguenze causate da una cirrosi sviluppata. Si tratta di un malfunzionamento del cervello per l’incapacità del fegato di eliminare sostanze tossiche del sangue provenienti dall’intestino, non riuscendo a filtrarle prima che arrivino nell’area celebrale. L’ammonio è considerata una di queste sostanze nocive. L’encefalopatia può essere sia acuta che cronica, con un peggioramento che può portare anche al coma l’80% dei pazienti che ne soffre (dati Humanitas). Come la cirrosi, può non essere intercettata per tempo, causando all’inizio tremore delle mani, alterazione nell’umore, per poi arrivare a difficolta nel parlare e nello scrivere e a stati di confusione e sonnolenza.
Le conseguenze della cirrosi e delle sue complicazioni, come l’encefalopatia, sono molte: circa 16mila morti l’anno in Italia, più o meno l’8% dei 200mila malati registrati. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica internazionale The Lancet, la cirrosi negli ultimi venti anni è diventata l’ottava causa di morte in Europa (170mila decessi, quasi il 2% dei totali), con mortalità aumentata del 45%. L’encefalopatia si presenta invece nel 35/40% dei pazienti affetti da cirrosi.
Oltre al dato sulla mortalità, e al conseguente disagio per lo stile di vita dei malati, un’altra conseguenza sta nel costo causato dalla patologia tra le ripetute ospedalizzazioni, le terapie curative e l’eventualità di un trapianto. La spesa annua per il Sistema Sanitario Nazionale è di oltre 200 milioni. Una cifra ricavata nel 2018 dal Ceis (Centre of Economical International Studies) dell’Università Tor Vergata di Roma. È stato calcolato un costo medio, di sole ospedalizzazioni, superiore agli 11mila euro per ogni paziente ricoverato una o più volte nel primo anno della patologia, mentre nel secondo si superano i 13mila. È stato anche stimato come, nei casi di encefalopatia, l’incidenza di altri ricoveri dopo il primo sia pari al 62%. La probabilità di decesso dopo il primo ricovero è invece del 32%, mentre in caso di paziente dimesso è del 29% il primo anno della malattia e del 33% nel secondo.
A queste cifre vanno aggiunte le spese gravanti sul paziente e sulla sua famiglia quali, ad esempio, assistenza e particolari regimi dietetici. Senza tralasciare i costi indiretti che si ripercuotono sulla vita sociale, come le giornate di lavoro perse e i permessi che il malato e chi lo assiste sono costretti a prendersi.
Le cause della cirrosi – La cirrosi epatica può avere origine principalmente da quattro fattori: la comparsa del virus dell’epatite C, come nel caso di Saverio, il virus dell’epatite B, l’uso e abuso di alcol e la steatosi epatica non alcolica, meglio nota come sindrome del fegato grasso, con la possibilità di evolversi per il 20% dei casi in infiammazione, la steatoepatite. L’Istituto Superiore di Sanità, nella sua pagina dedicata alla cirrosi epatica (aggiornata al 28 febbraio 2020), indica il virus C come causa del 58% degli attuali casi riscontrati, il virus B per il 17%, l’abuso cronico di alcol per il 16% e il fegato grasso per il 7%. Nonostante questi dati, molta preoccupazione viene soprattutto dallo sviluppo del ceppo alcolico e di quello relativo alla steatosi. La frequenza di cirrosi per steatoepatite è data in aumento: si presume che ¼ degli italiani soffra di steatosi non alcolica a causa di obesità, diabete e altri problemi vari legati al metabolismo.
Inoltre, negli ultimi anni, molti passi in avanti sono stati fatti nella prevenzione contro i virus C e B. Per quanto riguarda quest’ultimo, è stata fondamentale l’introduzione della vaccinazione obbligatoria in Italia nel 1991. Per questo, l’attuale fascia di popolazione tra gli 0 e i 40 anni è protetta, con i casi di positività che risiedono tra gli over 40 e i migranti provenienti soprattutto dall’Europa orientale e dall’Africa subsahariana. Negli ultimi anni anche la riduzione del virus dell’epatite C si è resa possibile per lo sviluppo di potenti farmaci antivirali e per il miglioramento di determinati comportamenti quotidiani quali l’utilizzo di siringhe monouso, la non condivisione di strumenti per l’igiene personale come rasoi e forbici per le unghie e la maggiore diffusione di pratiche contraccettive nei rapporti sessuali.
La cirrosi a causa di eccessivo consumo alcolico sembra invece essere la più virulenta tra tutte. “Dopo l’inserimento in commercio dei nuovi farmaci contro l’epatite C, si stima che la prima causa di cirrosi diventerà il consumo di bevande alcoliche. Già oggi, l’alcol rappresenta il 70% delle morti per cirrosi e la prima causa di trapianto al fegato”, ha spiegato Gianni Testino, presidente della società italiana di Alcologia, in occasione del già citato convegno di “Motore Sanità”. Per una malattia che rischia di essere scoperta in stato già avanzato, dalle ospedalizzazioni molto costose, dal quale non si può guarire salvo trapianto e che rischia di diffondersi ancora per l’eccessivo consumo di alcol, diventano essenziali la prevenzione e una diagnostica veloce.
Prevenzione per malati, care-giver e medici – Primache l’avvento della pandemia da coronavirus lo bloccasse sul nascere, il progetto Tiberino, ideato da Fadoi (Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti), si proponeva di realizzare dieci corsi in altrettante città italiane per permettere agli internisti ospedalieri una migliore gestione clinica della cirrosi epatica, oltre che un miglior counseling per il paziente e per coloro che lo assistono al momento della dimissione dall’ospedale. Gli obiettivi mirano alla prevenzione delle degenerazioni cirrotiche, come l’encefalopatia, al potenziamento della rete territoriale per permettere un’individuazione veloce della malattia, alla formazione di medici e infermieri per un’adeguata comunicazione con malato e famiglia e al miglioramento delle aspettative di vita di questi ultimi. “Purtroppo siamo riusciti a organizzare una sola sessione frontale a Milano”, racconta Giancarlo Parisi, responsabile del Fadoi per i programmi su gastroenterologia e fegato e direttore di medicina interna all’Ospedale Immacolata Concezione di Piove di Sacco, in provincia di Padova. “Avevamo preparato un format specifico per dare informazioni aggiuntive a medici e internisti sulle malattie del fegato” – continua Parisi – “inoltre era nostra intenzione preparare una sorta di vademecum adatto sia per medici che per care-giver, coloro che si occupano dell’assistenza dei pazienti”. La simbiosi tra staff medico e famiglia del malato è indispensabile per questa malattia, al fine anche di evitare costosi ricoveri in ospedale: “Il compito primario dei care-giver è quello di far seguire la terapia a casa. Ci sono poi le altre pratiche quotidiane, quelle su cui il vademecum si concentrerà maggiormente e per le quali il care-giver è fondamentale, dall’assunzione dei giusti cibi fino alla corretta evacuazione fecale”. I malati di cirrosi e di encefalopatia vanno incontro a una debilitazione fisica, ma non solo: “Già abbottonarsi una camicia, per fare un esempio banale” – sottolinea Parisi – “rischia di essere una piccola impresa”. Spossatezza, ma anche incapacità di riconoscere le connotazioni spazio-temporali del momento, di ricordarsi in che giorno della settimana o in quale anno ci si trova. “Spesso basta una piccola domanda, un ‘dove sono, che giorno è oggi’ per assicurarsi di come stiano andando le cose”, spiega ancora Parisi.
E se il care-giver deve essere educato, è fondamentale organizzare corsi anche per questa figura. È quello che stanno facendo l’Asl 1 di Napoli e l’Asl 3 di Genova. Ernesto Claar, responsabile della rete epatologica dell’Asl campana, è intervenuto in occasione del convegno di Motore Sanità per illustrare il piano d’azione: “In Campania ogni anno ci sono 1800 casi di cirrosi epatica ed epatocarcinoma. Per garantire cura e assistenza al paziente dobbiamo migliorare la rete tra gli ospedali e il territorio. Per questa ragione abbiamo istituito una scuola per care-giver di pazienti epatopatici. Sono i nostri stessi epatologi a gestirla, dando informazioni utili a livello sia clinico che sociale per ridurre ricoveri impropri”. Il progetto, nato nel giugno del 2019, è particolarmente sentito in una regione molto colpita dai problemi epatici. Nel solo 2018, l’Asl 1 Napoli Centro ha erogato oltre 20mila trattamenti con i nuovi antivirali di alta efficacia contro il virus dell’epatite C, ottenendone la scomparsa nel 98% dei casi. La formazione dei care-giver non presuppone però una de-responsabilizzazione del personale medico. “Per l’intercettazione della patologia, i dottori di medicina generale sono fondamentali”, afferma Giancarlo Parisi, “l’importante è collegarli poi con un centro ospedaliero adeguato”. Progettualità tra medici di base e grandi strutture, un legame spesso fragile, di cui si è parlato molto anche durante l’epidemia di Covid-19.
Animali per riconoscere il problema – “Tanto più fai una diagnosi di cirrosi tardivamente, tanto più togli sopravvivenza al malato e la possibilità di fare un trapianto. I medici di famiglia devono essere istruiti. Appena ci sono i sintomi, devono riconoscerli e mandarli nelle strutture adeguate, dove poi la malattia può regredire”. Ivan Gardini, presidente dell’Epac, ha affrontato un duro percorso come paziente cirrotico. Terapie vane, un doppio trapianto. Più di altri è consapevole della necessità di individuare da subito la malattia e le sue derivazioni. Oltre ad analisi ed esami idonei, anche un semplice test fai da te può fungere da diagnosi. Nel 2017 l‘Università di Padova ha messo a punto l’ “Animal test naming”, pubblicando lo studio sulla rivista Hepatology. L’obiettivo? Elencare almeno in un minuto 10/15 animali. Perché questa scelta? “L’Animal naming test è un test di fluenza semantica. E per ottenere una prestazione adeguata richiede un’organizzazione efficiente dell’attività di recupero delle parole e degli aspetti di controllo della cognizione, ma anche uno sforzo di auto-attivazione e l’inibizione delle risposte quando opportuno. Abilità cognitive che richiedono funzioni esecutive efficienti, oltre a un’adeguata memoria. La presenza di uno stadio iniziale di encefalopatia epatica, che pregiudica le funzioni esecutive, dunque, dovrebbe danneggiare la fluenza semantica”, ha spiegato all’Adnkronos Sara Montagnese, una delle scienziate coinvolte nella ricerca. Ricordare leoni, tigri, cani, polli, ma non solo. Arrivare almeno a 15 esemplari per essere sicuri di non essere affetti da nessuna encefalopatia latente. Un test pensato proprio per scovare la patologia in casi sospetti, chiaramente già cirrotici, che non presentano chiari segni di disorientamento. Per una sindrome così invalidante, che può far perdere il controllo di sé e il riconoscimento della propria identità, un trucco simile diventa utile anche per gli stessi care-giver. Nessun bisogno di specialisti, nessun ricovero urgente, nessun costo esorbitante. A differenza di quelli per farmaci e terapie.
Cure e farmaci – “Dalla cirrosi epatica non si può guarire, se non con il trapianto. Serve un fegato nuovo. Le cure sviluppate negli ultimi anni si sono concentrate soprattutto su una delle cause, il virus HCV, con ottimi risultati. Si tratta comunque di farmaci dai costi elevati”, spiega Parisi. Per quanto riguarda la cirrosi, finora la farmacologia ha elaborato soluzioni solo per attenuare la portata della malattia: “Sui nostri pazienti usiamo con successo la rifaximina, semplice da assumere e senza grandi controindicazioni”. Si tratta di un antibiotico usato per infezioni intestinali, al quale spesso si associa il lattulosio, uno zucchero nocivo per i batteri che producono ammoniaca e utile anche come lassativo.
Sempre nel solco del miglioramento delle condizioni del malato, e non della sua totale guarigione, si è mossa una ricerca coordinata dall’Azienda ospedaliera-universitaria Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna. Una somministrazione cronica di albumina, una proteina del plasma prodotta dalle cellule epatiche, può ridurre il rischio di mortalità a 18 mesi del 38%. L’esito di questo studio, sperimentato in 33 diversi centro ospedalieri italiani, è stato pubblicato su The Lancet nel giugno del 2019. Oltre alla riduzione della mortalità, i risultati di questa terapia prevedono una diminuzione della frequenza delle principali complicanze, tra cui insufficienza renale (-61%), encefalopatia epatica (-52%) e infezioni batteriche del liquido ascitico (-67%). Il vantaggio del trattamento, secondo i suoi autori, sta nel fatto di affrontare la malattia nella sua complessità e non solo una delle sue complicazioni. L’accesso alla cura non è però ancora molto diffuso. Prevenzione e velocità di diagnosi restano le stelle polari da seguire, ma i risultati finora lasciano soddisfatti a metà.
“Bisogna continuare a sensibilizzare sulle patologie che inducono la cirrosi”, spiega in definitiva Parisi, “agire negli ambienti a rischio, individuare i virus, stare attenti a chi soffre di problemi di alcolismo e di metabolismo. Guardano i risultati attuali, sono indotto all’ottimismo per quanto riguarda i virus, ma dal punto di vista dell’alcol siamo molto indietro, c’è una regressione. Abbiamo bisogno di campagne molto più incisive”.
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